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sabato 14 maggio 2011

ANTROPOLOGI ETNOCENTRICI

A noi antropologi insegnano, i primi anni dell'università, a come entrare in contatto con l'altro per   CAPIRE l' “altro”. Ci dicono che il miglior modo per farlo è immergersi completamente nella sua cultura, nel suo modo di vivere, riuscendo a vedere il mondo con i suoi occhi. E' ovvio che ciò comporti mettere da parte il proprio bagaglio culturale e ,volendo ricorrere a Bordieu, il proprio habitus. Non è una predisposizione da sottovalutare, in quanto il rischio di lasciarsi intrappolare dai propri punti di vista o da eventuali pregiudizi può presentarsi sotto forme neanche visibili e consapevoli, almeno ad un primo sguardo. Capire il perchè delle differenze o il significato di talune pratiche implica necessariamente  spogliarsi provvisoriamente della propria identità per indossare  panni che normalmente non ci appartengono. E può capitare che questi panni ci stiano stretti, talmente stretti da non riuscire a resistere alla tentazione di trovare dei compromessi, nella migliore delle ipotesi, altrimenti, invece, vince il rifiuto, il senso di superiorità e quindi il giudizio.
Scrivo questo in quanto, durante i miei anni di università ho spesso vissuto la frustrazione di chi, come me, sentiva davvero la voglia di imparare una disciplina come l'antropologia, aspettandosi particolari insegnamenti e predisposizioni da chi era dalla parte della cattedra, per poi invece trovarsi smarrito e con mille interrogativi. Approcciandomi all'antropologia ho sempre ritenuto utile affrontare la diversità come occasione preziosa non solo per confrontarsi, ma anche e soprattutto per mettere in discussione la propria cultura di appartenenza. Andare avanti con gli anni e constatare che invece la maggior parte dei professori si pone abitualmente in un atteggiamento etnocentrico nei confronti della diversità è stata una delle cose più scoraggianti e frustranti.
Riporterò qui di seguito un esempio concreto, illustrando un episodio a me successo perchè possa esser compreso meglio ciò che voglio dire.
Qualche tempo fa ho seguito all'università un corso sulla transe, sui rituali di possessione e sullo sciamanesimo. Ero finalmente felice di poter affrontare dopo tanto un argomento di mio interesse. E' bastato poco per capire l'approccio scettico del professore in merito al tema che in modo cristallino, ammettendo il fatto di non essere in  grado di poter accettare parole come “spirito”, “altra dimensione”, ha subito cercato di trovare spiegazioni razionali e occidentali ai relativi fenomeni. Ovviamente non potevo altro che fremere silenziosamente sul mio banco. Finalmente poi è arrivato il mio turno il giorno in cui avrei presentato alla classe “il serpente cosmico” di J. Narby. Oltre a sottolineare l'importanza del lavoro e della ricerca dell'autore ho raccontato la mia esperienza con l'ayahuasca in Perù, cercando di rendere comprensibile ciò che ho vissuto, affrontato e compreso. Non è semplice riuscire a trasmettere qualcosa del genere a chi è completamente ignaro all'argomento, ma credo di avere avuto perlomeno  il merito di mostrare un altro punto di vista, che esiste. Non ha senso stabilire quale sia l'esatto, ma è fondamentale averne di fronte un maggior numero possibile. Ho poi terminato il mio seminario domandando  al professore del corso se escludere a priori l'esistenza di realtà a noi inconcepibili (come l'esistenza di spiriti, il contatto con le divinità, l'accesso a mondi invisibili,etc) non sia un atteggiamento palesemente etnocentrico che non può che frenare l'indagine e una miglior comprensione di questa realtà. Ancora mi sto chiedendo se mi ha reso felice sentirmi rispondere di aver ragione....

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